Steve Jobs nella Città Provvisoria

Prologo

 

I presunti sani si permettono ancora di giudicare un uomo che dà la stessa importanza sia a una vite ritenuta non idonea, sia al mondo tutto. Un mondo che lui stesso ha stravolto per velocità, trasversalità e penetranza.

Questo è l’autismo di un “uomo di amore”. Un amore semplicemente perfetto e coerente.

Simpatico no.

Io però preferisco quest’amore globale e apparentemente ostile alle smancerie di turno.

 

 

Narrazione

 

La domenica notte spesso non dormo molto. Anche le altre notti non dormo molto. La domenica meno. Ora sono le 4.50 e ho già fatto trenta minuti di Meditazione Trascendentale. Trenta minuti di viaggi continui per immagini e concetti in embrione, che mi hanno definitivamente svegliato. Domani, infatti, è lunedì e come ogni lunedì me ne andrò nella città provvisoria.

 

Sono frenetico e non so perché. Anzi lo so. Voglio andarci ora. Non voglio aspettare domani. La sofferenza di un’attesa gratuita non la voglio aggiungere al disagio, che noi umani abbiamo ormai tatuato sul polso come il mio origami di unicorno.

 

Vado.

 

Salgo sulla mia piccola barca ormeggiata e senza accorgermene sono già nella città provvisoria. Buio. Poi meno buio. Poi i primissimi bagliori dell’alba, mentre cammino con la rilassatezza di un uomo che non ha più niente da volere se non questa pace.

 

Qui, dentro le piccole strade, si capisce la differenza dal mondo reale e l’importanza di avere fatto questo viaggio, essere unico superstite al ritorno e conservarne la memoria.

 

Sono solo amore.

 

Era questo lo scopo: dismettere gli abiti di chi è incatenato agli stessi errori sterili e condannato a trovarsi, ogni volta, di fronte agli esiti degli stessi errori. Gli uomini lo chiamano carattere, persuasi che se è carattere c’è poco da fare: non cambia mai, sei così e morirai così. Ossia vivrai tutta la vita completamente mal collocato rispetto alla posizione che, invece, ti spetterebbe se il tuo vero io fosse risanato.

 

Nella città provvisoria niente è mai uguale e si assapora la libertà di essere, finalmente, ciò che avremmo voluto essere: più intraprendenti, meno gelosi, più rapidi nelle decisioni, più inclini al perdono, meno superficiali. Si sperimenta il piacere di sentirsi leggeri, in sospensione.

 

Ormai la luce filtra dal cielo, a poco a poco tutto si rende visibile e ogni pensiero scompare.

 

Su ogni muro, ogni edificio, il campanile, le strade, i tronchi degli alberi, compare il logo Apple. Mi trovo in una città di mele morse e colorate. Di mele, morse e colorate.

 

Non mi è nemmeno possibile passare da una all’altra. Mi viene in mente 2001 Odissea nello Spazio, quando Bowman, l’astronauta, invia sulla terra le sue ultime parole: “La cosa è vuota, va avanti per sempre… Oh mio Dio, è  tutto pieno di stelle!”

 

Qui è tutto pieno di mele colorate e morse.

 

Oh Steve, credevo che il tumore al pancreas ti avesse guarito dall’autismo. Sorrido.

 

Ripenso a quando, per via di una vite che non gli piaceva, cancellò un progetto sul quale lavoravano da due anni. Quando gli ingegneri gli spiegarono che era l’unica vite in grado di bloccare i componenti del Mac e che quella vite non l’avrebbe notata nessuno, lui rispose: “Io si”.

 

Sono talmente sorpreso che non mi chiedo nemmeno se lo incontrerò di persona, perché essere qui è già essere con lui.

 

Ogni tanto mi piego per toccare una mela sull’asfalto: sono proprio dipinte, non sono la sua ultima invenzione ottica su macchine che dicono Ciao all’uomo. Queste mele le ha proprio dipinte: una ad una.

 

Sono commosso e non riesco a contenermi di fronte a tanta determinazione nel volere non solo cambiare la comunicazione nel mondo e quindi il mondo, ma dimostrare l’umanità racchiusa in una mente – la sua – capace di concepire solo la perfezione.

 

Il suo è un grido colorato nella città provvisoria e vale quel gesto di amore verso la figlia di quando le restituì un disegno fatto da lei con il Mac, sedici anni prima, e che lui aveva conservato in tasca per tutti quegli anni.

 

È la dimostrazione della differenza che passa tra un’utopia e la fattibilità di un progetto umanizzato.

 

Attraverso le mele trova il modo di gridare al mondo: non sono come dicono, sono preciso e amo, come e quanto voi.

 

Mi sembrava di sentire quel grido senza suono rimbalzare da un muro all’altro della città provvisoria; quella frustrazione autistica di non potersi interfacciare con gli altri con la stessa semantica e trovarsi, quindi, obbligati ad andare dritto senza dare spiegazioni.

 

Cammino, cammino fino a quando incontro un uomo seduto sui gradini della chiesa dipinti con mele colorate e morse, tutte equidistanti. È un vecchio uomo, malconcio. M’invita a sedermi accanto a lui.

 

Ora tutt’e due guardiamo davanti e il tempo sembra essersi fermato. Poi di nuovo quasi buio. L’uomo apre la mano e mi porge una vite.

Si alza lentamente e se ne va.

 

Grazie Steve.

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